La riforma amministrativa borbonica del 1817 istituì in Sicilia sette province sostanzialmente paritarie tra loro. La gerarchia tra le città siciliane fu ridefinita, e alterati i termini dell’antica rivalità tra Palermo e Messina. Catania si ritrovò capoluogo di un vasto territorio, sede di tribunali, dell’intendenza provinciale, di vari uffici amministrativi.
La popolazione, che in quel momento era scesa a 40 mila abitanti, risalì a 52 mila nel 1834, iniziando una straordinaria galoppata secolare: 68.810 abitanti nel 1861, 90 mila nel 1880, 150 mila nel 1900, 230 mila nel 1931, fino agli attuali 363 mila. Ragione primaria di questa crescita continua, che non ha riscontri nell’Isola, è lo scambio tra la campagna (e i centri minori) e il centro urbano.
Nella prima metà del secolo, la principale attività industriale catanese è il settore tessile. Tessitori e artigiani – insieme ai pescatori e alla gente che vive del porto – formano il nerbo del proletariato; c’è però, accanto a questi, anche una plebe di lavoratori marginali, di diseredati, di servitori o manovali generici, caratterizzata dalla mancanza di cultura e di interessi tecnici, che si affolla nel vecchio quartiere della Civita e dell’Idria; ma meno tumultuosa e conscia della propria forza che non in città come Palermo. Sono invece gli artigiani da un lato, e dall’altro i borghesi dagli interessi prevalentemente mercantili, a dare il tono agli strati popolari.
E’ ancora l’agricoltura che forma la ricchezza di Catania, sia nel senso di famiglie provinciali agiate o nobili che si trasferiscono in città, sia per la partecipazione di cittadini ad investimenti terrieri. La città si costruisce così il ruolo di mercato, di centro di distribuzione, e di polo culturale: teatri, gabinetti di lettura, l’Università e le accademie come quella Gioenia, periodici culturali e politici, come Lo Stesicoro del 1835-36.
Prima dell’Unità, la città è pur sempre relativamente povera di alberghi, di strade lastricate, di locali pubblici. La rottura tra la città e il regime borbonico si consuma nel 1837: sono i moti del colera che accusano la monarchia di aver sparso il veleno in odio al popolo. In realtà la difficile alleanza tra nobili costituzionalisti moderati e capipopolo viene rinsaldata dalla cecità della repressione borbonica che mira a colpire indiscriminatamente. Dopo di allora, nel 1848, nel 1860 con Garibaldi, e ancora nel 1862 con la fallita impresa garibaldina di Aspromonte, Catania fornirà al Risorgimento cospiratori massonici e carbonari, mazziniani e moderati, consolidando un’immagine di città democratica.
Nei primi anni dell’Unità d’Italia, Catania non viene meno a tale tradizione. Nel 1865 è fondata la società I figli del lavoro, con Mazzini come presidente onorario; sciolta di lì a poco, verrà ricostituita nel 1876 dal radicale Edoardo Pantano. Dopo l’assassinio del presidente americano Abramo Lincoln, viene intitolata a lui la via Lanza (oggi Di San Giuliano); si va formando uno strato di intellettuali radicali, presso i quali il democratismo si sposa alla totale fiducia nel potere rinnovatore della scienza. Vate di questi ambienti è Mario Rapisardi (1844-1912), poeta che sull’anticlericalismo e sul rifiuto del presente fonda la visione palingenetica di una umanità rinnovata.
Con le leggi di eversione dell’asse ecclesiastico, dopo il 1866, la città acquista gran parte di quei conventi, monasteri, ed altri beni immobili di cui la ricostruzione settecentesca aveva riempito il centro urbano.
Diventeranno scuole, caserme, uffici pubblici: concentrazione eccessiva di funzioni entro un breve perimetro, che oggi, a distanza di più di un secolo, è divenuta insopportabile. Ma è anche una grande occasione per acquistare, speculare, investire. Ed è su queste opere che la città inizia la sua crescita: si sistema la via Stesicorea (Etnea) abbassandone il livello; si imbrigliano le acque dell’Amenano (la fontana di piazza Duomo è del 1867); si tracciano e aprono nuove strade; nel 1866 si installa l’illuminazione a gas. E pur tuttavia, l’epidemia di colera colpisce nel 1866-67 e ancora nel 1887.
Con la seconda metà del secolo arriva anche la ferrovia, e con essa il collegamento con le due merci che staranno a fondamento di una grande espansione: lo zolfo dell’interno della Sicilia e gli agrumi. Per l’uno e per gli altri Catania diventa il polo dove il prodotto viene lavorato, imballato, commerciato e spedito. Ciò apre nuovi rami di attività industriale e inizia a differenziare le classi proletarie: crescono le raffinerie di zolfo, che insieme con la ferrovia, dai caratteristici archi su via Dusmet, rappresenta una cintura di ferro che taglia la città fuori dal mare. Nell’ultimo decennio del secolo, la ferrovia circumetnea collega Catania con Riposto girando attorno all’Etna e rappresenta un’arteria vitale per il trasporto di merci e di lavoratori agricoli. Gli anni dopo il 1880 inaugurano la stagione di una Catania espansiva, portatrice di un modello commerciale e industriale che addirittura sarà possibile proporre all’intera Sicilia. Attivissimo, il giovane sindaco e futuro ministro degli esteri Antonino Paternò Castello marchese Di Sangiuliano (1852-1914) inaugura una stagione di spese e di imprese. Non senza contraddizioni: di fronte alla trasformazione sociale rapida e tumultuosa maturano anche le amare considerazioni sui vinti che Giovanni Verga (1840-1922) espresse ne I Malavoglia (1881) e in Mastro – Don Gesualdo (1888 ). Più tardi, Federico De Roberto (1861-1927) ne I Viceré (1894) ritrarrà il marchese Di Sangiuliano come emblema del trasformismo di un’aristocrazia che non intende cedere le leve del comando. Questi scrittori, che con Luigi Capuana(1839-1915) costituiscono il grande contributo nazionale al verismo europeo, non a caso si interessano della questione sociale: con essa si misura tutta la cultura catanese, con punte alte quali l’opera di studioso e di politico di Angelo Majorana (1865-1910), ministro delle finanze con Giolitti, dalla carriera stroncata da una precoce morte. La questione sociale diviene perno della vita politica catanese: ad essa si ispira il lungo apostolato del cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet(1818-1894), vescovo di Catania dal 1866, che profonde ogni energia in mezzo ai quartieri più poveri per costruire un movimento di cattolicesimo sociale. Ma ne nasce anche, con la crisi agraria, e con la lacerazione violenta dei Fasci dei Lavoratori (1891 -1894) l’esperienza socialista riassunta nel nome di Giuseppe De Felice Giuffrida (1859-l920), il tribuno che trascinò le masse alla costituzione di magazzini cooperativi, di forni municipali per calmierare il prezzo del pane.
Liberali, cattolici, socialisti: diverse visioni che rispondono però all’immagine di un centro urbano vivo e attivo. Dal 1890, dopo un trentennio di sforzi, Catania ha anche il suo Teatro Massimo; qualche tempo prima, trasportando in patria la salma di Vincenzo Bellini, morto in Francia nel 1835, ha iniziato a riconoscere se stessa nei propri eroi. La città si popola di commercianti stranieri: sono esportatori di agrumi, imprenditori, negozianti, che si chiamano Brodbeck, Caflisch, Caviezel, Ritter, Wrzy; svizzeri cui si deve la fondazione della chiesa valdese e di quella evangelica, e che ben presto si guadagnano un posto nei ranghi della élite locale. Divenuto sindaco nel 1902 De Felice inaugurò una politica di municipalizzazioni e di lavori pubblici (tra l’altro si deve alla sua sindacatura la messa in luce dell’anfiteatro romano), per cui Catania poté in quei giorni trovare una propria immagine ben definita: la Milano del Sud.
Progresso economico e progresso democratico identificavano la città e la proponevano come modello. Ne furono segni la grande Esposizione commerciale del 1907, le cerimonie di inaugurazione, alla presenza della famiglia reale, del monumento a Umberto I nel 1911.
Una immagine diversa, ma pur sempre forte, era quella popolareggiante, che faceva perno sul dialetto, e sulle caratteristiche, vere o presunte, del mondo dei cortili: sono le satire e i versi di Nino Martoglio (1870-1921), l’arte teatrale istintiva, che incantò Mejerch’old e D’Annunzio, di Giovanni Grasso (1873-1930) e della sua compagnia, l’esordio di Angelo Musco (1871-1937).
La base economica e sociale di questa grande stagione non era solidissima. Nel primo decennio del secolo ventesimo, l’alleanza popolare garantita da De Felice, convince sempre meno; astro nascente della grande borghesia catanese è Gabriello Carnazza (1871-1931), di grande famiglia risorgimentale, legato ad interessi finanziari dei nuovi gruppi elettrici, interessato a grandi progetti di bonifica agraria. E’ il principale nemico del defelicianesimo, mentre si prospettano, a destra, aggregazioni nazionalistiche e agrarie. La città, che ha esitato a lungo tra la vocazione industriale e quella commerciale, ha finito col far prevalere quest’ultima. Con la grande guerra, e con la successiva crisi del fascismo, si spezzano i circuiti commerciali; perde d’importanza lo zolfo siciliano; la città entra in una crisi profonda, non solo economica.
Nei primi anni Venti del Novecento, però, la città è ancora carica di energia: Pirandello scrive testi dialettali per Angelo Musco, Gabriello Carnazza è ministro di Mussolini. Ma un gruppo di giovani vivaci, fortemente sedotti dal futurismo, dall’interventismo, perfino dal fascismo, finisce col disperdersi emigrando fisicamente o intellettualmente. La Catania degli anni Trenta è quella che Vitaliano Brancati (1907-l954) percepirà come carica di noia e di incapacità di vivere, tutta risolta nell’impotenza dello sguardo e della smania erotica nei romanzi Gli anni perduti e Don Giovanni in Sicilia, pubblicati nel 1941.
Non mancano in questo periodo grandi progetti. Si pensa ad opere pubbliche di potere e di prestigio: un nuovo carcere, un nuovo palazzo di giustizia, il risanamento tramite sventramento del vecchio quartiere San Berillo; alcuni di questi progetti, interrotti dalla guerra, saranno conclusi solo negli anni Cinquanta, trascinando la loro magniloquenza autoritaria nell’età repubblicana. Lo stile razionalista dell’epoca imprime ad alcuni edifici un segno di modernità che oggi siamo in grado di capire e di recuperare. Durante la seconda guerra mondiale, Catania conobbe la fame, lo sfollamento, i bombardamenti, la crisi politica del regime; queste cose, e specialmente i pesanti bombardamenti del luglio 1943, lasciarono il segno: da un secolo e mezzo lo spettro della guerra non si era più manifestato in Sicilia. Con la Liberazione da parte degli angloamericani non venne lo stimolo a riconoscere se stessi e a ricostruire una personalità collettiva: venne invece il contrabbando, il brigantaggio, l’affarismo, l’accettazione passiva del caos. Nel dicembre del 1944, la folla che diede fuoco al Municipio non militava nemmeno sotto le insegne del separatismo; era solo una massa stanca della guerra e della fame. Lo stesso episodio di Antonio Canepa, fondatore dell’EVIS e animatore della guerriglia separatista, ucciso nel 1945, rimase senza seguito di massa.
Gli anni della ricostruzione mostrarono che non si era del tutto spento il senso della coscienza civica: è significativo, per esempio, che il settecentesco palazzo Massa di San Demetrio, ai Quattro Canti, distrutto dalle bombe, venisse rifatto esattamente come prima. Ma ben presto l’edilizia stessa diventò motore e insieme traino dello sviluppo economico.